*Omelia 27 settembre 2018*
“Vanità delle vanità tutto è vanità”
Questo grido tristissimo, amaro, di tono leopardiano chiude il Vecchio Testamento, è l’ultimo libro della Bibbia: oltre a questo il Vecchio Testamento non sa più cosa dire. La speranza ebraica si è frantumata di fronte alle domande della cultura greca – questo è un libro che ha già incontrato i greci – che fanno riflettere gli ebrei e gli ebrei non sanno che cosa dire di fronte a queste scoperte che i greci mettono a fuoco.
Vanità non vuol dire “niente”: le cose ci sono, si impongono, ci fanno ridere e piangere per tutta la vita, segnano il nostro volto per sempre. Vanità vuol dire che sono vane, il termine ebraico è chiarissimo, abel: abel vuol dire vapore, è la nuvoletta di vapore che si forma nel primissimo sole dopo l’alba quando in medio-oriente un po’ di rugiada ha rinfrescato, ma lo stesso sole che la fa evaporare, nel giro di un’ora l’ha già frantumata e dispersa, non resta più niente. Questa è l’immagine della vita dell’uomo, se uno la guarda in modo razionale e realistico: una cosa bella che c’è che ti prende in un’ora è sparita. Svanisce e tu ti chiedi: ma vale la pena amarla questa vita così bella e così precaria come quella nuvoletta? Questa è l’immagine drammatica che chiude brutalmente il Vecchio Testamento: la crisi era cominciata con la sfida del libro di Giobbe tempo prima, che qui viene come massacrato. Da quel giorno non ci saranno più profeti fra gli ebrei, per 180 anni non ce ne saranno più, il primo sarà appunto Giovanni Battista, che dirà: “non sono io, guardate Lui”. Da quel giorno per 180 anni nessuno ha più il coraggio di fare il profeta perché non sa più che cosa dire sul senso della vita. Perché il tono è diventato amaro, leopardiano, triste e gli ebrei si metteranno a fare una sola cosa: attendere il Messia. Si divideranno in quattro gruppi organizzati – farisei, sadducei, zeloti ed esseni – con un po’ di gente sparsa tra il popolo di Javeh, a dire: “se non accade qualcosa noi non ci capiamo niente, noi non sappiamo rispondere, deve accadere qualcosa che noi non conosciamo, possiamo solo aspettare il Messia”.
Il Vecchio Testamento non conclude in se stesso, ha una crepa a cui risponde soltanto il grido che si sentirà da quelle parti nel 36/37 dopo Cristo da un uomo che dirà: “Se Cristo non è risorto, la vostra fede e la vostra vita sono esattamente vane, vuote, inconsistenti come quella nuvoletta”. Lo dice Paolo dopo aver già incontrato Gesù risorto, prima non poteva dirlo, e si rende conto che l’unica risposta è Gesù risorto, quello che è accaduto in quei quaranta giorni dopo che è stato sepolto.
Che grazia abbiamo noi ad essere discepoli di Paolo, invece che discepoli di Saulo, che era appunto incattivito e violento perché conosceva solo la vanità delle cose che gli avvelenava e gli incattiviva il cuore.