Omelia Don Carlo 22 febbraio 2019

Omelia 22 febbraio 2019

“Beato te Simone: tutto questo non ti viene dalla carne e dal sangue”, cioè dalla natura, ci da mille cose belle, ma effimere che durano un giorno o pochi giorni, sempre troppo poco anche se durano cent’anni! Questo è il dramma della vita, almeno per chi pensa alla vita, perché per chi non pensa i problemi diminuiscono, il dramma non c’è per chi non pensa: la vita non è un dramma, ma è una farsa, una barzelletta, la si alleggerisce; quando il dolore è troppo, lo si rifiuta, non ci si butta più, la vita non è drammatica, se non è grande, se non è fatta per una grandezza infinita a cui si sente sproporzionata, che cosa vale? Nè viverla, neanche donarla. Come un bene di consumo: si usa e si getta. Ma a Simone, quel giorno, il Padre che è nei cieli gli ha rivelato un’altra cosa sulla vita, gli ha mostrato una possibilità di esperienza che Simone non immaginava, quando ha detto: “Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivente (…) tutto ciò che legherai sulla terra, sarà legato in cielo”. Simone ha visto, quel giorno, la possibilità, guardando Gesù, di un’armonia tra la terra e il cielo, ha visto in Gesù che le cose della terra vibrano in armonia col cielo, come direbbe Dante al trentatreesimo del Paradiso: “Sì come rota, chi ugualmente è mossa”, un’immagine molto meccanica, come un ingranaggio in cui due ruote diverse, una grande, l’altra piccolissima girano in armonia, poco poetica ma all’Itis era efficacissima una parabola come questa. Ecco, Simone vede che la terra che è così piccola e fragile può girare in armonia col cielo, intuisce, seguendo Gesù, una bellezza sconosciuta che all’inizio uno può confondere con la bellezza naturale. Quante volte mi accorgo che il bene che c’è fra noi lo esprimi all’inizio con le parole, coi gesti e gli affetti naturali; poi, pian piano, le senti sempre più inadeguate, non puoi più chiamarla amicizia e basta, ti accorgi che le parole che noi conosciamo sono inadeguate e ti viene da dire, fateci caso: è come, è come se, è come se, usiamo spessissimo queste espressione esattamente come Gesù che, a un certo punto, usava sempre meno le parole definitorie e parlava in parabole, usava il “come se” cioè delle immagini usava un linguaggio simbolico analogico, suggestivo, quello che rinuncia a definire, che suggerisce. E San Paolo stesso, che è il Cristiano che più si è trovato di fronte alla novità del cristianesimo ha dovuto usare più di chiunque altro scrittore della letteratura mondiale gli ἅπαξ λεγόμενον, sono espressioni che non esistono nei vocabolari, che se le inventa lo scrittore stesso, mette insieme la radice di un verbo, un pezzo di un avverbio, una congiunzione, mette il verbo all’infinito e, alla fine, usa queste parole che non si trovano, per capirle devi vedere il contesto letterario, non ti basta quello – perchè le parole non bastano – direbbero i filologi tedeschi Sitz-im-Leben, il contesto esistenziale, devi intravedere dietro alle parole l’esperienza umana e, quando te la trovi addosso, ti accorgi di dire: cos’è questa cosa, che cosa è, tu come la chiameresti? Perchè non hai le parole, si rimane un attimo sospesi, ci si guarda negli occhi e tu capisci che l’altro ha capito. Non c’è cosa più bella che questa commozione fra noi. Pietro, quel giorno, ha intuito questo.