Omelia, 31 agosto 2020
“Oggi si compie questa scrittura”.
La scrittura racconta l’attesa della felicità del popolo ebraico, l’attesa di felicità che ha mosso Gesù. Quel giorno a Nazareth Gesù annuncia il compimento dell’attesa. La felicità è il matrimonio tra l’attesa e il compimento, tutti e due.
Noi siamo tristi quando ci manca o l’attesa, o il compimento perché non puoi attendere a lungo se non vedi il compimento, ma non puoi fare l’annuncio a chi non attende niente. Gesù lo proibisce, proibisce di dar le perle ai porci, a chi banalizzerebbe l’annuncio. L’annuncio è per chi è affamato, tutto mancante, tutto un grido, tutto fuori posto. Lo scopo della comunità cristiana non è di farci star bene, ma di destare ed innescare il desiderio per la ricerca del bene. È maledetto chi spegne l’attesa; è benedetto chi desta l’attesa anche se l’attesa non garantisce la fede – lo si vede bene da Nazareth. L’attesa è solo condizione per capire l’annuncio. A Nazareth c’è l’attesa, la Scrittura la riesprime di nuovo, tutta la gente è lì ad ascoltarla con gli occhi fissi mentre Lui la legge, c’è l’annuncio del compimento, ma “Lo condussero sul ciglio del monte per gettarLo giù”, perché per credere non basta l’attesa e non basta neppure l’annuncio! Crede chi vuole veramente bene a se stesso e non è ovvio che uno voglia veramente bene a sé. È ovvio che uno voglia un bene comodo, ma non il bene vero, il bene a qualunque costo, anche a costo della croce, non è ovvio neanche per Gesù nel Getsemani: fu lotta, fu battaglia, la fede fu un atto di libertà e sarà sempre un atto di libertà. Tutto il resto è preparazione a questo atto, condizione di questo atto, ma mai la sostituzione di questo atto.